Può sembrare una
constatazione forzata ma, sfogliando un qualsiasi manuale di Storia dell’Arte,
risulta evidente che la gran parte delle opere universalmente riconosciute come
contributi essenziali al progresso delle arti visive in senso “positivista”,
sono frutto di uno sguardo all’esterno, fuori dalle mura domestiche. Le
stazioni rumorose e gli affollati caffè degli impressionisti, le strade
illuminate da bagliori acidi degli espressionisti, le piazze in rivolta e i
fragorosi cantieri dei futuristi potrebbero essere considerati tappe di un
cammino di estroflessione che ha il suo culmine nell’invasione degli spazi
pubblici e negli interventi sul paesaggio operati nell’ambito della Public Art e della Land Art alla fine del Novecento.
Mentre si
consuma questa corsa verso l’esterno sono tanti i grandi maestri a rimanere tra
le mura di casa, segnando un percorso individuale e spesso aprogrammatico,
tortuoso e sotterraneo. Cammini di introflessione, spesso tutt’altro che rassicuranti.
Pensiamo agli infiniti pavimenti a scacchi di Casorati, agli interni soffocanti di Balthus, alle pareti incolore che pulsano intorno alle bottiglie di
Morandi, alle stanze livide delle
case di Hopper che, viste dall’esterno,
appaiono impenetrabili ed enigmatiche ancor più che all’interno, ai secchi
riferimenti prospettici che balenano come tracce luminose nel buio in cui si
dibattono le creature di Francis Bacon.
Eppure questo
atteggiamento introspettivo e, potremmo dire, “domestico” non ha niente a che
vedere con la chiusura, semmai con la separazione: Jung sosteneva che la casa possiede una valenza intrapsichica, in
quanto luogo in cui l'uomo si rapporta e vive con le superfici e con gli
oggetti di cui si è circondato per rappresentare il proprio mondo, ma anche una
superficie intermedia tra il mondo interno e quello esterno della persona.
L’archetipo della casa, nucleo di questa esibizione, si può applicare al
concetto stesso di opera d’arte che, come la casa, è una costruzione che
accoglie lo spettatore - ospite e gli chiede di confrontarsi con i suoi
contenuti.
Contemporaneamente
gli offre l’opportunità di riflettere sulle leggi che ne governano la struttura
e determinano la compiutezza della sua forma. Questo passo ulteriore ci può
condurre ad un approccio freddamente analitico, se ci atteniamo al ruolo che la
mentalità occidentale affida all’arte e che attualmente ci offre un’idea
compromessa e frammentaria, se non travisata, del valore artistico di un oggetto.
Se, invece, ci apriamo per un attimo alla concezione orientale, possiamo
pensarla come ad una sorta di mappa per la meditazione: il dipinto, il disegno,
la fotografia come planimetrie dello spirito da percorrere, conoscere ed
abitare.
La compiutezza
della forma, alla base del concetto di opera d’arte, si lega strettamente anche
all’idea della costruzione, in particolare per ciò che riguarda gli edifici
sacri: l’attenta lettura della simbologia
presente nelle cattedrali gotiche e in varie “dimore filosofali”, operata da
Fulcanelli, ci fornisce una chiave per aprirci ad una fruizione di queste
costruzioni come “libri di pietra”,
edificati seguendo un ben preciso ordine rituale e la cui costruzione
(comprendente l'immenso apparato iconico all'interno degli stessi edifici)
simboleggiava quella della Grande Opera Alchemica.
La ritualità ed
il simbolismo che animano la magia e le forme arcaiche di religiosità
governavano, prima che dilagasse la via “razionale”, la progettazione e la
costruzione della casa: l’abitazione non doveva semplicemente soddisfare le
esigenze materiali dell’uomo, ma favorire la sua sintonia con il ciclo vitale,
la cadenza del giorno e della notte, il ciclo delle stagioni e perfino la
dicotomia vita / morte.
Heidegger, nel suo “Costruire abitare pensare”,
parte dall’analisi di parole arcaiche nate per esprimere questi concetti e
giunge a dire che “L’abitare è il modo secondo il quale i mortali sono sulla
terra”. Il filosofo include gli uomini
in una originaria unità, la “quadruplicità”,
formata da mortali ed immortali, terra e cielo. Abitare è custodire, proteggere l’essenza della
quadruplicità, non semplicemente soggiornare; le “cose che non crescono”, cioè
quelle edificate dai mortali, possono “radunare la quadruplicità”, darle una “dimora”
e stabilire un “rapporto tra il luogo e l’uomo che è in esso”. Solo la
“capacità di far penetrare terra e cielo, gli immortali e i mortali in
essenziale unitarietà nelle cose” può edificare la casa.
Gli artisti di
Ozio e quelli coinvolti nel progetto, si confronteranno non a caso, nella prossima
tappa materana, con l’idea dell’abitare. Le abitazioni rupestri dei “Sassi”,
che oggi ci appaiono semplicemente “pittoresche”, sono frutto di un
intelligente percorso di adattamento dell’uomo alla natura, alla pietra, alla
conformazione del paesaggio ed al suo rapporto peculiare con il ciclo
dell’acqua e perfino con la direzione dei raggi solari, durato
ininterrottamente, e in continua evoluzione dal paleolitico al Cinquecento. La
struttura stessa dell’abitato era, già dal neolitico, pensata per orientare nel
modo più corretto l’uomo nel flusso del tempo, in armonia con il cosmo secondo
le conoscenze tradizionali in campo astronomico. La casa come cassa di
risonanza delle vibrazioni del mondo, dispositivo che permette di generare
quello stato di sospensione che riteniamo essenziale allo sviluppo del processo
creativo.
Giovanni Matteo
Emanuele
Puzziello