Giovanni Matteo
Volevano
la pietra leccese, il tufo, il càrparo. Le forme erano completamente nuove, ma
i materiali erano quelli che da sempre erano stati cavati dai nostri giacimenti,
per costruire sfarzose cattedrali e palazzi imponenti, così come umili case
contadine ed insignificanti chiesette di campagna.
Pensai
che fosse per quel motivo, che volevano una mia scultura sullo spigolo di quel
palazzone che m’avevano fatto vedere in un prospetto disegnato con maestria su
un enorme foglio. Ero materiale locale, a quanto pare.
Quando
me lo srotolarono davanti non riuscivo a credere che quell’assurdo agglomerato
di volumi perfettamente geometrici potesse davvero atterrare tra le volute del
barocco e i timpani del manierismo che facevano di Lecce il labirinto
disordinatamente aggraziato che ricordavo.
Quando
vivevo ancora a Galatina, e già il sacro fuoco dell’arte faceva di me un mucchietto
di braci ansiose di ardere e fiammeggiare laddove qualcuno potesse notarlo, un
professore aveva intuito che quelle cinque arcate che affioravano dal terreno,
come membra di trapassati che cercano di risorgere, dovevano essere parte di un
importante edificio di epoca romana. Scava e scava, era venuta fuori metà della
pancia vuota di un anfiteatro romano di considerevoli dimensioni: Lecce doveva
essere una piccola Roma, ai tempi dell’impero. Forse per questo, qualcuno,
dalla capitale, si era degnato di rivestire con i rigidi abiti del nuovo impero
quella città lasciata troppo a lungo abbandonata alle mollezze del suo sogno
millenario.
Il
corpo principale del Palazzo dell’INA si incurvava ad assecondare i contorni
dell’anfiteatro, ma i ruderi rimanevano al di sotto del piano di calpestio, quasi
del tutto estranei all’ininterrotto incrociarsi dei quotidiani tragitti dei
vivi, mentre la geometria si impadroniva del panorama cittadino, e forse ne
cambiava l’animo e la mentalità. Forse.
La
mia cariatide, pensai, doveva essere un raccordo tra quella spaventosa
modernità e la coscienza di un’antichità meno edulcorata di quella barocca
delle chiese e dei vicoli. Un piccolo anello di congiunzione, una lieve
concessione alla decorazione plastica in corrispondenza di uno dei tanti
incroci di quel titanico reticolo di minacciose (almeno così parevano a me) linee
rette.
Forse
qualcuno non si sarebbe neppure accorto della sua esistenza, ma sarebbe stata
lì, più in basso, più umile, più laica e domestica del santo benedicente in
cima alla colonna ma, comunque, in alto.
Non
era la prima figura che scolpivo per le fortezze del regime: il Pilota ed il
Maestro d’ascia per il prospetto del Palazzo delle Finanze di Bari erano più
imponenti, ma anche più lontane dal mio sentire.
Erano
stati anni di sintesi e di confronto, per me e per altri che andavano
conquistandosi favori decisamente maggiori tra i critici e gli uomini di
governo. Anni di arcaismo, volumi solidi, severità delle forme. Non certo per
adattarmi al gusto imperante: la moda del Ritorno all’Ordine non mi aveva toccato,
a suo tempo. All’ordine non avevo mai smesso di tendere, per onorare i miei veri maestri, i
grandi del Rinascimento, e per sottrarre i miei pensieri al caos che facilmente
li assorbiva, facendoli mulinare angosciosamente in un vortice che mi
inghiottiva e mi sballottava, soprattutto in gioventù.
Quando
i futuristi cominciarono a venirsene con le loro idee astruse, scrissi perfino
un contromanifesto. Non ero che un ragazzo di provincia, ma ero in grado di
capire quale fosse il loro scopo e quali mezzi tecnici e stilistici
intendessero utilizzare, e ne capivo abbastanza per realizzare che non mi
interessavano.
Per
me l’artista non avrebbe mai dovuto essere altro che un interprete delle umane
passioni, e i futuristi facevano dell’uomo un manichino, un pupazzo a molla simile
a quelli che si donano ai bambini per la Befana. Balla e Boccioni confondevano
la scienza e la meccanica con l’arte, e mettevano l’uomo in un cantuccio.
Questa
mia visione dell’arte m’aveva lungamente penalizzato: la definivano
“ottocentesca”, e qualcuno prese perfino il mio padiglione alla Biennale per la
retrospettiva di uno scultore del XIX secolo, rispolverato per l’occasione. Non
me la presi. D’altronde per me la polemica sull’Ottocento non era chiusa, non
c’era niente da buttare via, nessun punto zero da cui ricominciare, nessun
punto meno uno da cui riallacciarsi alla tradizione.
Forse
per questo non volevo che la mia cariatide fosse un’eroina della modernità,
come il pilota o il maestro d’ascia. Doveva essere antica ed umana, una
contadina dimessa, eppure dritta sulla schiena, con il capo rispettosamente
coperto ma il volto in luce, sereno ed affaticato ad un tempo, come quelle
dipinte da Millet, che dalla campagna veniva davvero, proprio come me.
Delle
contadine raccontate dal pittore francese doveva avere la dignità, non l’umiltà
e la dolcezza; non doveva trasmettere l’afflato religioso che animava Millet.
Se un senso religioso doveva impetrare, la mia cariatide, non era certo quello
cristiano: una piccola dea delle messi, casomai, una delle tante piccole dee
senza Olimpo che permettevano al Duce, mietendo e raccogliendo, di tenere tutto
stretto stretto tra le sue braccia forti: “Tutto dentro lo Stato, niente al di
fuori dello Stato”, come recita ancora la spessa scritta nera in cima alla
facciata curvilinea della Questura.
Con
le loro braccia, che perdevano ogni mollezza ed eleganza femminili, quelle
piccole dee gli concedevano di erigere i suoi santuari al dio Stato e i monumenti
alla strana divinità nelle vesti della quale lui stesso si faceva
rappresentare. Una divinità senza apparenti debolezze, a differenza di quelle
greche e romane. E senza le loro proporzioni perfette, mi permetto di
aggiungere, ora che nessuno mi sanziona se non riesco a starmi zitto o
dimentico di indossare la camicia nera durante l’ennesima parata, come quella
volta a Roma.
Quelle
piccole dee senza Olimpo, poi, spigolando come ai tempi dell’Antico Testamento,
riuscivano a portare un po’ di farina in casa, con cui fare qualche pagnotta di
pane bianco, ogni cento di pane nero che i loro figli dovevano sbocconcellare,
in attesa di dannarsi nei campi e tra i filari, e di farsi valere sul campo di
battaglia.
Così
andavo ragionando, e tacevo, ché a malapena riuscivo a dar da vivere alla mia
povera Amelia, e poi, quelle rare commissioni mi davano la possibilità d’essere
uno scultore povero, piuttosto che un povero scultore.
Ragionamenti
ottocenteschi, troppo rossi per l’era di Mussolini, troppo grigi per quella che
venne poi, quella della cosiddetta “ricostruzione”. Corsi e ricorsi, sempre.
Costruzione abbattimento ricostruzione. Prima nell’Arte, che è sempre un passo
avanti, poi nella Storia. E mai nessuno che riesca a vedere un filo di senso
ininterrotto.
Io
mi affaticavo gli occhi per vederlo, quel filo, nella penombra del mio studio,
ché l’elettricità costa. Lo cercavo nelle vene della pietra, nelle tracce che
lasciavo con le mirette nell’argilla fresca, tra i graffi dei miei disegni. Ma
non divaghiamo, anche se, chi mi conosce bene, ci è abituato, al mio divagare.
Dicevo
che la mia cariatide doveva essere severa ma, per quanto ci provassi, non
riuscivo ad impormi una linearità che facesse rassomigliar le mie sculture a
quei mirabili spaventapasseri che scolpiva Martini e quegli inquietanti,
umanissimi burattini che dipingeva Sironi. Così mi concentrai sulle spighe.
La
natura, a ben vedere, sa essere molto lineare. Molto più dell’uomo che si
incurva di continuo, piegando la schiena davanti al più forte o dandosi uno slancio
di ribellione; l’uomo che sale in cima e rotola giù come Sisifo, che segue
percorsi tortuosi per ritrovarsi miseramente al punto di partenza o fatalmente dove
magari nemmeno lui sa.
Dunque,
scolpii le spighe pensando all’angolo dell’edificio che doveva accogliere la
mia scultura: avrebbero seguito verticalmente lo spigolo, così pure la mia
contadina sarebbe riuscita solenne, marziale, essenziale, come quelle pietre
squadrate erette nel cuore stranito del gorgo barocco di Lecce.
Quante
contadine, quante madri avevo ed avrei disegnato, scolpito, plasmato. Quella
che ho regalato a Lecce può sembrare diversa da tutte loro, perché quelle stavano
tutte sedute: alcune in attesa dello sciogliersi del mistero della nascita,
altre dell’uomo di ritorno dai campi o dalla guerra, altre ancora in attesa di
quel tutto e niente che è il volger delle stagioni, altre ancora, della morte.
Questa
è in piedi, è vero. Qualcuno potrebbe pensare che la mia contadina si fosse
alzata perché l’attesa era finita, il riscatto era arrivato fino ai campi dove quelle
come lei s’erano spezzate la schiena fino a quel momento. Glielo lasciavo
credere, a quei bolsi gerarchi in abiti militareschi, adatti ad una guerra che
si guardavano bene anche solo dal pensare di combattere in prima linea e che,
di lì a poco, ci avrebbe travolto tutti come una disgrazia inevitabile.
La
mia contadina sa benissimo che il riscatto non ha niente a che vedere con gli
slogan, le promesse, le prese di posizione e nemmeno con i movimenti di popolo.
Il riscatto è una questione privata, è l’ultimo colpo di scalpello che ti risolve
la paziente fatica di mesi, è la spigolatura al crepuscolo, quando il padrone
ti lascia finalmente andare a casa, per portare a molire quel poco di farina
che ti permetterà di cuocere finalmente un bellissimo pane bianco.
La
mia contadina è in piedi. Perché segue uno spigolo.