L’Ozio è rifugio e strumento d’indagine. Non l’ozio dei basilischi e dei gattopardi, ma quello di Seneca: “una sosta, non un porto”, che dà l’occasione di contemplare, scrutare, conoscere… La quiete apparente del Sud, la lentezza evocata da Franco Cassano nel suo “Pensiero Meridiano”, che permette di “aprirsi magicamente ai sogni” e di trovare “un accordo tra mente e mondo”. L'Ozio che coinvolge gli artisti che hanno deciso di collaborare a questo progetto non è una condizione stagnante ma, al contrario, è il motore della novità: permette di scavare ancora, dopo millenni nella realtà che viviamo, per offrire frammenti di verità. L’arte vuole il suo tempo, l’artista deve impadronirsene per poter pensare, elaborare, mettere in campo la sua abilità manuale, cercando il giusto equilibrio tra virtuosismo e gesto istintuale, tra esperienza personale e collettiva.

venerdì 16 agosto 2013

"Lecce barocca. E Lecce fascista?"

 Giovanni Matteo, contributi di Sante Cutecchia e Stefano De Santis


Nell’agosto del 2012 il progetto Ozio faceva il suo primo passo con la collettiva omonima presso Art&Ars Gallery, in Galatina. L’immagine scelta per trasmettere in modo immediato il vortice di idee e suggestioni che animavano il gruppo di artisti coinvolti nell’esibizione era un puttino, rubato al balcone di un palazzo seicentesco della cittadina al centro del Salento. Uno stralcio del Barocco pulsante e caotico del leccese come segno della volontà di far confluire il “pensiero meridiano” nel procedimento artistico. Nel febbraio del 2013 il progetto si sposta a Matera, per riflettere sul concetto dell’abitare. La chiesa rupestre di Santa Lucia alle Malve fornisce l’immagine di questa tappa, con i cerchi concentrici ricavati nella piatta volta di pietra, a sostituire la cupola ed a suggerire un’idea di elevazione. Elevazione che può avvenire al chiuso di un edificio, un manufatto umano, se risponde a delle precise esigenze formali e spirituali.
In questa occasione gli artisti del gruppo intendono confrontarsi con la città di Lecce. Sarebbe agevole ripartire dalle suggestioni delle caratteristiche declinazioni locali del Barocco, perfettamente calzanti con il tema centrale del progetto, ma si è scelto di volgere lo sguardo altrove. Nonostante la sua posizione geografica, Lecce, nell’ambito del Barocco, è centro. La facciata di Santa Croce campeggia su migliaia di guide turistiche, in qualunque manuale di Storia dell’Arte e perfino tra le pagine dei testi scolastici delle medie. E Ozio lavora sull’idea di perifericità. Non per snobismo, né per paura di percorrere sentieri già calcati, ma perché lo sguardo dell’ozioso si riserva il tempo di posarsi dove raramente cade quello altrui. Perché si prende il lusso di non essere selettivo.
Attraversiamo, allora, via Libertini, lasciandoci dietro il sensuale brulichio di piccole luci ed ombre delle facciate barocche e ci affacciamo su Piazza Sant’Oronzo, distogliendo lo sguardo dalla colonna e dal Sedile, per soffermarci sui chiaroscuri netti delle architetture razionaliste che dialogano con il vasto spazio. Dialogano, sì, ma in marziale silenzio. Lecce barocca? È un passato che ci piace sentire presente, anche per ragioni di marketing territoriale. Lecce romana è seminascosta al passante, nel fondo ombroso dell’anfiteatro e dignitosamente conservata nei musei. Che nei profili netti del palazzo dell’INA si possano, invece, scorgere gli inquieti spettri di una Lecce fascista ci crea perfino imbarazzo. Eppure si tratta dell’ultimo imponente intervento urbanistico sul cuore dell’abitato.

Anche a me piace, specie nei tramonti melanconici di questo Salento bello nella sua uniforme monotonia, cullarmi tra la storia e la leggenda e la fantasia; e sognare di città morte (…); ma oggi più che mai la vita è battaglia, è lotta, è vibrazione nuova; oggi occorre, più che addormentarsi, svegliarsi dal nostro sogno millenario. (…) Quando saremo stati capaci di costruire i porti, le strade ferrate, le città, quando avremo essiccato le paludi, risanato le plaghe squallide (…); allora solo avremo il diritto di riposarci sui ruderi della passata grandezza per compiacerci di averne costruita una nuova.”

Le parole di Ernesto Alvino non fanno che confermarci l’esistenza di quello spirito sognante e riflessivo che sentiamo appartenerci ma, allo stesso tempo, aprono una finestra sullo spirito del tempo in cui quegli interventi urbanistici sono stati voluti con forza e messi in atto, non senza polemiche e difficoltà.
È proprio la perifericità di Lecce a mettere in discussione il varo di grandi interventi urbanistici: con la scorporazione dell’antica Terra d’Otranto e l’istituzione delle province di Taranto e poi di Brindisi, voluta proprio da Mussolini, Lecce si configura come una realtà isolata e di modeste dimensioni. Eppure tra gli anni Trenta e Quaranta esplode “una febbre di opere mai supposta, una corsa entusiasmante a riguadagnare terreno per raggiungere in testa di comando le più fattive e progredite città italiane.”, come scrive sempre Alvino nel ’39 in “Puglia in Linea”.
In questi anni vedono la luce edifici come il palazzo dell’INA e quello dell’INPS, il Liceo Palmieri, il Magazzino Tabacchi e il Sanatorio, ai quali lavora l’impresa di Pierluigi Nervi, il Cineteatro Massimo, la Casa del Balilla, l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, il Liceo Musicale. Opere rivoluzionarie, in controtendenza con il quieto e solenne, un po’ funereo, stile umbertino di molti edifici risalenti solo al decennio precedente.
Presenze imponenti e spartane. Volumi geometrici che gettano sul piano stradale i loro spigoli vivi, i piani continui sui quali si aprono finestre ampie ed alte che sembrano occhi sbarrati ed attenti. Niente fronzoli: muri, balaustre, architravi, cornici che non cercano di simulare elementi vegetali e non si animano di putti, grifi e mascheroni, come a definirsi con chiarezza e sicurezza per quello che sono: edifici pubblici, snodi del traffico della cittadinanza, luoghi assembleari e di erogazione di beni e servizi, favori e dinieghi, testimonianza e strumento di controllo del potere, certo, ma privi di quella retorica che ancora trasudano le espressioni architettoniche di regime dei cugini d’oltralpe: le enormi statue che fanno pensare ad atleti greci anabolizzati e senz’anima, la monumentalità esasperata e propagandistica delle tetre costruzioni naziste hanno fatto raramente breccia nella nostra penisola. Grazie ad un’idea di pretesa mediterraneità e ad un controllo meno rigido, o forse solo più italicamente pigro, dello spirito e della mente di progettisti ed artisti.
Qui c’è solo qualche cariatide, qualche fregio scultoreo, qualche scritta. Una parola, un simbolo, una figura che deve esprimere un concetto. Seccamente, una volta per tutte. Nessuna concessione al gusto diffuso, nessuna icona rassicurante. Spigoli, architravi, superfici piane senza retorica che svettano sulla selva ampollosa di ghirlande, telamoni e colonne tortili. Nessuna citazione del campionario iconografico e formale della leccesità, se non la scelta dei materiali autoctoni. Una scelta semplice, pratica, razionale che testimonia la volontà di condurre la città ad incarnare, anzi impetrare, i nuovi modelli, e non ad indossarli, come una solenne quanto provvisoria divisa da parata.
Cosa resta oggi, dell’ansia di rinnovamento espressa da Alvino? Di quell’urgenza di bonifica, edificazione, riorganizzazione? È possibile che le spinte rivoluzionarie, le soffocate grida di ribellione degli oppositori, lo spirito stesso del tempo, agitato da tensioni contrarie e turbato da eventi che hanno segnato la nostra storia e la nostra identità, sia stato inglobato da quello immutabile e sonnolento, del “Salento bello nella sua uniforme monotonia”? Che il piano temerario che doveva cambiare volto ed anima della città sia stato metabolizzato da una Lecce che proprio non vuole smettere di essere barocca e sognante? Spigoli vivi e piani ortogonali come velo sottile di edifici smussati e ricamati nel loro intimo dallo stesso vento irrequieto che consuma le bianche calcareniti, nelle stradicciole che portano a piazza Sant’Oronzo? Forse.
O forse no. Forse c’è qualcosa nel grande artista e nel grande architetto di questo nostro strano Paese, che si ribella sempre, a volte platealmente, a volte in modo sottile. Le esigenze di ordine e compostezza che animano i razionalisti nell’architettura e i novecentisti nella pittura non potrebbero nascere dall’urgenza di imbragare un’energia creativa così potente ed instabile da poter risultare distruttiva? I futuristi sono stati usati e poi gettati via o acquietati dal regime maturo. Il loro agitarsi è servito fino a quando il Fascismo è stato rivoluzionario, poi è risultato scomodo e inappropriato e le loro scoperte, il loro progetto di sostituire la tecnologia allo spirito e la macchina al corpo ci appaiono oggi, mentre ci prepariamo ad una decrescita divenuta improcrastinabile, tanto più stantii del “chiaro di luna” che volevano distruggere.
C’è qualcosa di più profondamente rivoluzionario dei proclami onomatopeici e delle linee – forza, in questa compostezza, in questa razionalità. Dietro la ricerca del volume puro si agita qualcosa di indefinibile. La rivoluzione, in un Paese soffocante come il nostro non può che vibrare sottopelle e trasmettere segretamente queste vibrazioni, quest’inquietudine che ronza sotto le superfici regolari degli edifici e i corpi torniti dei dipinti.
Qualcuno lo chiama “sospensione”. Sospensione di cosa? Della rivoluzione? Del pensiero? Della vita?
Quella che ci trafigge l’anima di fronte a questi edifici, così come di fronte ad una tela di Sironi è una sospensione che non ha niente a che fare con quella che possiamo provare di fronte ad un tempio greco o alla volta di una chiesa romanica, che ci possono regalare un senso di sospensione accidentale, dovuto allo stratificarsi della storia che ha avuto un particolare rispetto per quei capitelli e quei costoloni. Io credo che il senso di sospensione che proviamo davanti alle espressioni dello spirito di quel tempo, corso ma recente, non sia accidentale.
Il passare degli anni”, dice Pier Paolo Pasolini parlando nello specifico di Sabaudia, “ha fatto sì che questa architettura di carattere littorio assuma un carattere tra metafisico e realistico.” Metafisico nel senso che riesce ad evocare il silenzio carico d’attesa delle piazze dechirichiane, realistico nel senso che “si sente che le città sono fatte – come si dice, un po’ retoricamente – a misura d’uomo: si sente che all’interno ci sono delle famiglie costituite in maniera regolare, delle persone umane, degli esseri viventi completi, interi, pieni nella loro umiltà”. Per lui il razionalismo non è un’espressione del regime fascista ma dell’Italia provinciale, rustica, vera. E giunge ad affermare che il vero fascismo è quello della “civiltà dei consumi” che “sta distruggendo, in realtà, l’Italia”.
Forse la distruzione profetizzata da Pasolini è già avvenuta e queste strutture hanno conservato il loro carattere metafisico, mentre la percezione di quello realistico potrebbe essere ormai severamente compromessa dalla logica del consumo e dall’appiattimento culturale che ne è derivato.
L’arte non può che raccogliere le suggestioni che emanano dai luoghi modificati in quegli anni, secondo logiche per noi difficilmente condivisibili ma certamente estranee a quelle che da decenni portano un cospicuo numero di addetti ai lavori a confrontarsi con il territorio come un bene da consumare, oggetto di lottizzazione indiscriminata, di investimento e non di attribuzione di funzione e significato.
Con le opere che proporremo e le performance che metteremo in atto presso questi edifici non intendiamo celebrare l’architettura di regime, né iniettare malinconie o sentimenti revisionisti nello spettatore, ma indicare un aspetto della cultura italiana che ci appartiene e ci affascina perché è forse l’ultima, vera testimonianza di un sentire e di un vivere comune che, come ha realizzato Pasolini, non è univocamente riconducibile al Fascismo.
L’identità di un popolo è complessa, stratificata. Come quella di un individuo è costituita da elementi profondamente differenti, talvolta contrastanti, eppure vale la pena di attraversare ogni territorio che compone questa complessità, per riconoscersi e per riconoscere le tante sfaccettature di un’identità che non può essere rigida, monolitica, chiusa.
L’arte è in grado di condurre ogni cosa su un piano parallelo a quello del vissuto quotidiano, superando le barriere. Vagabondando per Lecce fascista tracceremo strade che collegano punti non congiungibili su una normale planimetria e ne disegneremo un’altra. Improbabile, metafisica, realistica, sospesa su questa città fatta della pietra che dalla città stessa prende il nome, come a indovinarne il fantasma.

Bibliografia:

Ettore Bambi, Stampa e società nel Salento Fascista, Lacaita editore, 1981
Silvia Bignami – Paolo Rusconi, Le arti e il fascismo. Italia anni Trenta, Art e Dossier, Giunti 2012
Marcello Fagiolo – Vincenzo Cazzato, Le città nella storia d’Italia: Lecce, Laterza, 1984
Andrea Mantovano, Il volto della città nuova: la rivoluzione razionalista a Lecce, in Kunstwollen n°2 – Architetture salentine, Edizioni Esperidi, 2010
Andrea Mantovano,Trasformazione di uno spazio pubblico: Piazza S. Oronzo a Lecce



"Lecce fascista, una cartina turistica di regime" - Elemento della performance omonima."

lunedì 28 gennaio 2013


 


ARTErìa
associazione d'arte e cultura Matera


inaugura:




Ozio - Abitare

dal 3 al 23 febbraio 2013
Sala mostre ARTErìa, Vico XX settembre, 2 - Matera

Inaugurazione 3 febbraio, ore 18,30

Orari:  Lunedì - Sabato 16,00 - 20,00

www.arteriamatera.it
Tel/Fax 0835.337383 - 3284030729


"Ozio - Abitare" è una ricognizione sul lavoro svolto negli ultimi mesi nell’ambito di “Ozio”. Si tratta di un progetto nato da un gruppo di artisti del sud Italia che coinvolge personalità operanti in aree geografiche differenti, impegnati in procedimenti di vario genere, in un percorso volto alla riscoperta di un atteggiamento lento e riflessivo nei confronti del fare arte, alla presa di coscienza del valore archetipico delle immagini, alla valorizzazione della perifericità, sia in senso geografico che culturale.
Orfeo Cellura, Hernàn Chavar, Francesco Cuna, Sante Cutecchia, Pasquale De Sensi, Tinatin Ghughunishvili, Mariateresa Marino, Salvatore Masciullo, Luigi Massari, Alessandro Matteo, Fabio Mazzola, Emanuele Puzziello e Caterina Striccoli si confrontano con l’idea della casa, adottando come bussola il concetto di abitazione come cassa di risonanza delle vibrazioni del mondo. Non un manufatto che deve semplicemente soddisfare le esigenze materiali dell’uomo ma, come hanno fatto per millenni le abitazioni rupestri dei Sassi, favorire la sua sintonia con il ciclo vitale, la cadenza del giorno e della notte, il ciclo delle stagioni e perfino la dicotomia vita / morte. Ciascuno degli artisti coinvolti riflette in modo personale, focalizzando ora l’aspetto privato ed intimo dell’abitare, ora gli aspetti simbolici e rituali o quelli socio antropologici e mettendo in relazione il processo creativo dell’opera d’arte con quello della costruzione della casa.

Dal 3 febbraio sarà possibile effettuare gratuitamente il download del catalogo in pdf da questo blog.

martedì 22 gennaio 2013

Appunti sull’abitare





 Può sembrare una constatazione forzata ma, sfogliando un qualsiasi manuale di Storia dell’Arte, risulta evidente che la gran parte delle opere universalmente riconosciute come contributi essenziali al progresso delle arti visive in senso “positivista”, sono frutto di uno sguardo all’esterno, fuori dalle mura domestiche. Le stazioni rumorose e gli affollati caffè degli impressionisti, le strade illuminate da bagliori acidi degli espressionisti, le piazze in rivolta e i fragorosi cantieri dei futuristi potrebbero essere considerati tappe di un cammino di estroflessione che ha il suo culmine nell’invasione degli spazi pubblici e negli interventi sul paesaggio operati nell’ambito della Public Art e della Land Art alla fine del Novecento.

Mentre si consuma questa corsa verso l’esterno sono tanti i grandi maestri a rimanere tra le mura di casa, segnando un percorso individuale e spesso aprogrammatico, tortuoso e sotterraneo. Cammini di introflessione, spesso tutt’altro che rassicuranti. Pensiamo agli infiniti pavimenti a scacchi di Casorati, agli interni soffocanti di Balthus, alle pareti incolore che pulsano intorno alle bottiglie di Morandi, alle stanze livide delle case di Hopper che, viste dall’esterno, appaiono impenetrabili ed enigmatiche ancor più che all’interno, ai secchi riferimenti prospettici che balenano come tracce luminose nel buio in cui si dibattono le creature di Francis Bacon.

Eppure questo atteggiamento introspettivo e, potremmo dire, “domestico” non ha niente a che vedere con la chiusura, semmai con la separazione: Jung sosteneva che la casa possiede una valenza intrapsichica, in quanto luogo in cui l'uomo si rapporta e vive con le superfici e con gli oggetti di cui si è circondato per rappresentare il proprio mondo, ma anche una superficie intermedia tra il mondo interno e quello esterno della persona. L’archetipo della casa, nucleo di questa esibizione, si può applicare al concetto stesso di opera d’arte che, come la casa, è una costruzione che accoglie lo spettatore - ospite e gli chiede di confrontarsi con i suoi contenuti.

Contemporaneamente gli offre l’opportunità di riflettere sulle leggi che ne governano la struttura e determinano la compiutezza della sua forma. Questo passo ulteriore ci può condurre ad un approccio freddamente analitico, se ci atteniamo al ruolo che la mentalità occidentale affida all’arte e che attualmente ci offre un’idea compromessa e frammentaria, se non travisata, del valore artistico di un oggetto. Se, invece, ci apriamo per un attimo alla concezione orientale, possiamo pensarla come ad una sorta di mappa per la meditazione: il dipinto, il disegno, la fotografia come planimetrie dello spirito da percorrere, conoscere ed abitare.

La compiutezza della forma, alla base del concetto di opera d’arte, si lega strettamente anche all’idea della costruzione, in particolare per ciò che riguarda gli edifici sacri: l’attenta lettura della simbologia presente nelle cattedrali gotiche e in varie “dimore filosofali”, operata da Fulcanelli, ci fornisce una chiave per aprirci ad una fruizione di queste costruzioni come  “libri di pietra”, edificati seguendo un ben preciso ordine rituale e la cui costruzione (comprendente l'immenso apparato iconico all'interno degli stessi edifici) simboleggiava quella della Grande Opera Alchemica.

La ritualità ed il simbolismo che animano la magia e le forme arcaiche di religiosità governavano, prima che dilagasse la via “razionale”, la progettazione e la costruzione della casa: l’abitazione non doveva semplicemente soddisfare le esigenze materiali dell’uomo, ma favorire la sua sintonia con il ciclo vitale, la cadenza del giorno e della notte, il ciclo delle stagioni e perfino la dicotomia vita / morte.

Heidegger, nel suo “Costruire abitare pensare”, parte dall’analisi di parole arcaiche nate per esprimere questi concetti e giunge a dire che “L’abitare è il modo secondo il quale i mortali sono sulla terra”.  Il filosofo include gli uomini in una originaria unità, la “quadruplicità”,  formata da mortali ed immortali, terra e cielo. Abitare è custodire, proteggere l’essenza della quadruplicità, non semplicemente soggiornare; le “cose che non crescono”, cioè quelle edificate dai mortali, possono “radunare la quadruplicità”, darle una “dimora” e stabilire un “rapporto tra il luogo e l’uomo che è in esso”. Solo  la “capacità di far penetrare terra e cielo, gli immortali e i mortali in essenziale unitarietà nelle cose” può edificare la casa.

Gli artisti di Ozio e quelli coinvolti nel progetto, si confronteranno non a caso, nella prossima tappa materana, con l’idea dell’abitare. Le abitazioni rupestri dei “Sassi”, che oggi ci appaiono semplicemente “pittoresche”, sono frutto di un intelligente percorso di adattamento dell’uomo alla natura, alla pietra, alla conformazione del paesaggio ed al suo rapporto peculiare con il ciclo dell’acqua e perfino con la direzione dei raggi solari, durato ininterrottamente, e in continua evoluzione dal paleolitico al Cinquecento. La struttura stessa dell’abitato era, già dal neolitico, pensata per orientare nel modo più corretto l’uomo nel flusso del tempo, in armonia con il cosmo secondo le conoscenze tradizionali in campo astronomico. La casa come cassa di risonanza delle vibrazioni del mondo, dispositivo che permette di generare quello stato di sospensione che riteniamo essenziale allo sviluppo del processo creativo.


 Giovanni Matteo

Emanuele Puzziello