Giovanni Matteo, contributi di Sante Cutecchia e Stefano De Santis
Nell’agosto
del 2012 il progetto Ozio faceva il suo primo passo con la collettiva
omonima presso Art&Ars Gallery, in Galatina. L’immagine scelta
per trasmettere in modo immediato il vortice di idee e suggestioni
che animavano il gruppo di artisti coinvolti nell’esibizione era un
puttino, rubato al balcone di un palazzo seicentesco della cittadina
al centro del Salento. Uno stralcio del Barocco pulsante e caotico
del leccese come segno della volontà di far confluire il “pensiero
meridiano” nel procedimento artistico. Nel febbraio del 2013 il
progetto si sposta a Matera, per riflettere sul concetto
dell’abitare. La chiesa rupestre di Santa Lucia alle Malve fornisce
l’immagine di questa tappa, con i cerchi concentrici ricavati nella
piatta volta di pietra, a sostituire la cupola ed a suggerire un’idea
di elevazione. Elevazione che può avvenire al chiuso di un edificio,
un manufatto umano, se risponde a delle precise esigenze formali e
spirituali.
In
questa occasione gli artisti del gruppo intendono confrontarsi con la
città di Lecce. Sarebbe agevole ripartire dalle suggestioni delle
caratteristiche declinazioni locali del Barocco, perfettamente
calzanti con il tema centrale del progetto, ma si è scelto di
volgere lo sguardo altrove. Nonostante la sua posizione geografica,
Lecce, nell’ambito del Barocco, è centro. La facciata di Santa
Croce campeggia su migliaia di guide turistiche, in qualunque manuale
di Storia dell’Arte e perfino tra le pagine dei testi scolastici
delle medie. E Ozio lavora sull’idea di perifericità. Non per
snobismo, né per paura di percorrere sentieri già calcati, ma
perché lo sguardo dell’ozioso si riserva il tempo di posarsi dove
raramente cade quello altrui. Perché si prende il lusso di non
essere selettivo.
Attraversiamo,
allora, via Libertini, lasciandoci dietro il sensuale brulichio di
piccole luci ed ombre delle facciate barocche e ci affacciamo su
Piazza Sant’Oronzo, distogliendo lo sguardo dalla colonna e dal
Sedile, per soffermarci sui chiaroscuri netti delle architetture
razionaliste che dialogano con il vasto spazio. Dialogano, sì, ma in
marziale silenzio. Lecce barocca? È un passato che ci piace sentire
presente, anche per ragioni di marketing territoriale. Lecce romana è
seminascosta al passante, nel fondo ombroso dell’anfiteatro e
dignitosamente conservata nei musei. Che nei profili netti del
palazzo dell’INA si possano, invece, scorgere gli inquieti spettri
di una Lecce fascista ci crea perfino imbarazzo. Eppure si tratta
dell’ultimo imponente intervento urbanistico sul cuore
dell’abitato.
“Anche
a me piace, specie nei tramonti melanconici di questo Salento bello
nella sua uniforme monotonia, cullarmi tra la storia e la leggenda e
la fantasia; e sognare di città morte (…); ma oggi più che mai la
vita è battaglia, è lotta, è vibrazione nuova; oggi occorre, più
che addormentarsi, svegliarsi dal nostro sogno millenario. (…)
Quando saremo stati capaci di costruire i porti, le strade ferrate,
le città, quando avremo essiccato le paludi, risanato le plaghe
squallide (…); allora solo avremo il diritto di riposarci sui
ruderi della passata grandezza per compiacerci di averne costruita
una nuova.”
Le
parole di Ernesto Alvino non fanno che confermarci l’esistenza di
quello spirito sognante e riflessivo che sentiamo appartenerci ma,
allo stesso tempo, aprono una finestra sullo spirito del tempo in cui
quegli interventi urbanistici sono stati voluti con forza e messi in
atto, non senza polemiche e difficoltà.
È
proprio la perifericità di Lecce a mettere in discussione il varo di
grandi interventi urbanistici: con la scorporazione dell’antica
Terra d’Otranto e l’istituzione delle province di Taranto e poi
di Brindisi, voluta proprio da Mussolini, Lecce si configura come una
realtà isolata e di modeste dimensioni. Eppure tra gli anni Trenta e
Quaranta esplode “una
febbre di opere mai supposta, una corsa entusiasmante a riguadagnare
terreno per raggiungere in testa di comando le più fattive e
progredite città italiane.”, come scrive sempre Alvino nel ’39
in “Puglia in Linea”.
In
questi anni vedono la luce edifici come il palazzo dell’INA e
quello dell’INPS, il Liceo Palmieri, il Magazzino Tabacchi e il
Sanatorio, ai quali lavora l’impresa di Pierluigi Nervi, il
Cineteatro Massimo, la Casa del Balilla, l’Opera Nazionale
Maternità e Infanzia, il Liceo Musicale. Opere rivoluzionarie, in
controtendenza con il quieto e solenne, un po’ funereo, stile
umbertino di molti edifici risalenti solo al decennio precedente.
Presenze
imponenti e spartane. Volumi geometrici che gettano sul piano
stradale i loro spigoli vivi, i piani continui sui quali si aprono
finestre ampie ed alte che sembrano occhi sbarrati ed attenti. Niente
fronzoli: muri, balaustre, architravi, cornici che non cercano di
simulare elementi vegetali e non si animano di putti, grifi e
mascheroni, come a definirsi con chiarezza e sicurezza per quello che
sono: edifici pubblici, snodi del traffico della cittadinanza, luoghi
assembleari e di erogazione di beni e servizi, favori e dinieghi,
testimonianza e strumento di controllo del potere, certo, ma privi di
quella retorica che ancora trasudano le espressioni architettoniche
di regime dei cugini d’oltralpe: le enormi statue che fanno pensare
ad atleti greci anabolizzati e senz’anima, la monumentalità
esasperata e propagandistica delle tetre costruzioni naziste hanno
fatto raramente breccia nella nostra penisola. Grazie ad un’idea di
pretesa mediterraneità e ad un controllo meno rigido, o forse solo
più italicamente pigro, dello spirito e della mente di progettisti
ed artisti.
Qui
c’è solo qualche cariatide, qualche fregio scultoreo, qualche
scritta. Una parola, un simbolo, una figura che deve esprimere un
concetto. Seccamente, una volta per tutte. Nessuna concessione al
gusto diffuso, nessuna icona rassicurante. Spigoli, architravi,
superfici piane senza retorica che svettano sulla selva ampollosa di
ghirlande, telamoni e colonne tortili. Nessuna citazione del
campionario iconografico e formale della leccesità, se non la scelta
dei materiali autoctoni. Una scelta semplice, pratica, razionale che
testimonia la volontà di condurre la città ad incarnare, anzi
impetrare, i nuovi modelli, e non ad indossarli, come una solenne
quanto provvisoria divisa da parata.
Cosa
resta oggi, dell’ansia di rinnovamento espressa da Alvino? Di
quell’urgenza di bonifica, edificazione, riorganizzazione? È
possibile che le spinte rivoluzionarie, le soffocate grida di
ribellione degli oppositori, lo spirito stesso del tempo, agitato da
tensioni contrarie e turbato da eventi che hanno segnato la nostra
storia e la nostra identità, sia stato inglobato da quello
immutabile e sonnolento, del “Salento bello nella sua uniforme
monotonia”? Che il piano temerario che doveva cambiare volto ed
anima della città sia stato metabolizzato da una Lecce che proprio
non vuole smettere di essere barocca e sognante? Spigoli vivi e piani
ortogonali come velo sottile di edifici smussati e ricamati nel loro
intimo dallo stesso vento irrequieto che consuma le bianche
calcareniti, nelle stradicciole che portano a piazza Sant’Oronzo?
Forse.
O
forse no. Forse c’è qualcosa nel grande artista e nel grande
architetto di questo nostro strano Paese, che si ribella sempre, a
volte platealmente, a volte in modo sottile. Le esigenze di ordine e
compostezza che animano i razionalisti nell’architettura e i
novecentisti nella pittura non potrebbero nascere dall’urgenza di
imbragare un’energia creativa così potente ed instabile da poter
risultare distruttiva? I futuristi sono stati usati e poi gettati via
o acquietati dal regime maturo. Il loro agitarsi è servito fino a
quando il Fascismo è stato rivoluzionario, poi è risultato scomodo
e inappropriato e le loro scoperte, il loro progetto di sostituire la
tecnologia allo spirito e la macchina al corpo ci appaiono oggi,
mentre ci prepariamo ad una decrescita divenuta improcrastinabile,
tanto più stantii del “chiaro di luna” che volevano distruggere.
C’è
qualcosa di più profondamente rivoluzionario dei proclami
onomatopeici e delle linee – forza, in questa compostezza, in
questa razionalità. Dietro la ricerca del volume puro si agita
qualcosa di indefinibile. La rivoluzione, in un Paese soffocante come
il nostro non può che vibrare sottopelle e trasmettere segretamente
queste vibrazioni, quest’inquietudine che ronza sotto le superfici
regolari degli edifici e i corpi torniti dei dipinti.
Qualcuno
lo chiama “sospensione”. Sospensione di cosa? Della rivoluzione?
Del pensiero? Della vita?
Quella
che ci trafigge l’anima di fronte a questi edifici, così come di
fronte ad una tela di Sironi è una sospensione che non ha niente a
che fare con quella che possiamo provare di fronte ad un tempio greco
o alla volta di una chiesa romanica, che ci possono regalare un senso
di sospensione accidentale, dovuto allo stratificarsi della storia
che ha avuto un particolare rispetto per quei capitelli e quei
costoloni. Io credo che il senso di sospensione che proviamo davanti
alle espressioni dello spirito di quel tempo, corso ma recente, non
sia accidentale.
“Il
passare degli anni”, dice Pier Paolo Pasolini parlando nello
specifico di Sabaudia, “ha fatto sì che questa architettura di
carattere littorio assuma un carattere tra metafisico e realistico.”
Metafisico nel senso che riesce ad evocare il silenzio carico
d’attesa delle piazze dechirichiane, realistico nel senso che “si
sente che le città sono fatte – come si dice, un po’
retoricamente – a misura d’uomo: si sente che all’interno ci
sono delle famiglie costituite in maniera regolare, delle persone
umane, degli esseri viventi completi, interi, pieni nella loro
umiltà”. Per lui il razionalismo non è un’espressione del
regime fascista ma dell’Italia provinciale, rustica, vera. E giunge
ad affermare che il vero fascismo è quello della “civiltà dei
consumi” che “sta distruggendo, in realtà, l’Italia”.
Forse
la distruzione profetizzata da Pasolini è già avvenuta e queste
strutture hanno conservato il loro carattere metafisico, mentre la
percezione di quello realistico potrebbe essere ormai severamente
compromessa dalla logica del consumo e dall’appiattimento culturale
che ne è derivato.
L’arte
non può che raccogliere le suggestioni che emanano dai luoghi
modificati in quegli anni, secondo logiche per noi difficilmente
condivisibili ma certamente estranee a quelle che da decenni portano
un cospicuo numero di addetti ai lavori a confrontarsi con il
territorio come un bene da consumare, oggetto di lottizzazione
indiscriminata, di investimento e non di attribuzione di funzione e
significato.
Con
le opere che proporremo e le performance che metteremo in atto presso
questi edifici non intendiamo celebrare l’architettura di regime,
né iniettare malinconie o sentimenti revisionisti nello spettatore,
ma indicare un aspetto della cultura italiana che ci appartiene e ci
affascina perché è forse l’ultima, vera testimonianza di un
sentire e di un vivere comune che, come ha realizzato Pasolini, non è
univocamente riconducibile al Fascismo.
L’identità
di un popolo è complessa, stratificata. Come quella di un individuo
è costituita da elementi profondamente differenti, talvolta
contrastanti, eppure vale la pena di attraversare ogni territorio che
compone questa complessità, per riconoscersi e per riconoscere le
tante sfaccettature di un’identità che non può essere rigida,
monolitica, chiusa.
L’arte
è in grado di condurre ogni cosa su un piano parallelo a quello del
vissuto quotidiano, superando le barriere. Vagabondando per Lecce
fascista tracceremo strade che collegano punti non congiungibili su
una normale planimetria e ne disegneremo un’altra. Improbabile,
metafisica, realistica, sospesa su questa città fatta della pietra
che dalla città stessa prende il nome, come a indovinarne il
fantasma.
Bibliografia:
Ettore
Bambi, Stampa e società nel Salento Fascista, Lacaita editore, 1981
Silvia
Bignami – Paolo Rusconi, Le arti e il fascismo. Italia anni Trenta,
Art e Dossier, Giunti 2012
Marcello
Fagiolo – Vincenzo Cazzato, Le città nella storia d’Italia:
Lecce, Laterza, 1984
Andrea
Mantovano, Il volto della città nuova: la rivoluzione razionalista a
Lecce, in Kunstwollen n°2 – Architetture salentine, Edizioni
Esperidi, 2010
Andrea
Mantovano,Trasformazione di uno spazio pubblico: Piazza S. Oronzo a
Lecce
"Lecce fascista, una cartina turistica di regime" - Elemento della performance omonima."