L’Ozio è rifugio e strumento d’indagine. Non l’ozio dei basilischi e dei gattopardi, ma quello di Seneca: “una sosta, non un porto”, che dà l’occasione di contemplare, scrutare, conoscere… La quiete apparente del Sud, la lentezza evocata da Franco Cassano nel suo “Pensiero Meridiano”, che permette di “aprirsi magicamente ai sogni” e di trovare “un accordo tra mente e mondo”. L'Ozio che coinvolge gli artisti che hanno deciso di collaborare a questo progetto non è una condizione stagnante ma, al contrario, è il motore della novità: permette di scavare ancora, dopo millenni nella realtà che viviamo, per offrire frammenti di verità. L’arte vuole il suo tempo, l’artista deve impadronirsene per poter pensare, elaborare, mettere in campo la sua abilità manuale, cercando il giusto equilibrio tra virtuosismo e gesto istintuale, tra esperienza personale e collettiva.

giovedì 20 marzo 2014

Lecce fascista - La cariatide di Martinez

Giovanni Matteo


Volevano la pietra leccese, il tufo, il càrparo. Le forme erano completamente nuove, ma i materiali erano quelli che da sempre erano stati cavati dai nostri giacimenti, per costruire sfarzose cattedrali e palazzi imponenti, così come umili case contadine ed insignificanti chiesette di campagna.
Pensai che fosse per quel motivo, che volevano una mia scultura sullo spigolo di quel palazzone che m’avevano fatto vedere in un prospetto disegnato con maestria su un enorme foglio. Ero materiale locale, a quanto pare.
Quando me lo srotolarono davanti non riuscivo a credere che quell’assurdo agglomerato di volumi perfettamente geometrici potesse davvero atterrare tra le volute del barocco e i timpani del manierismo che facevano di Lecce il labirinto disordinatamente aggraziato che ricordavo.
Quando vivevo ancora a Galatina, e già il sacro fuoco dell’arte faceva di me un mucchietto di braci ansiose di ardere e fiammeggiare laddove qualcuno potesse notarlo, un professore aveva intuito che quelle cinque arcate che affioravano dal terreno, come membra di trapassati che cercano di risorgere, dovevano essere parte di un importante edificio di epoca romana. Scava e scava, era venuta fuori metà della pancia vuota di un anfiteatro romano di considerevoli dimensioni: Lecce doveva essere una piccola Roma, ai tempi dell’impero. Forse per questo, qualcuno, dalla capitale, si era degnato di rivestire con i rigidi abiti del nuovo impero quella città lasciata troppo a lungo abbandonata alle mollezze del suo sogno millenario.
Il corpo principale del Palazzo dell’INA si incurvava ad assecondare i contorni dell’anfiteatro, ma i ruderi rimanevano al di sotto del piano di calpestio, quasi del tutto estranei all’ininterrotto incrociarsi dei quotidiani tragitti dei vivi, mentre la geometria si impadroniva del panorama cittadino, e forse ne cambiava l’animo e la mentalità. Forse.
La mia cariatide, pensai, doveva essere un raccordo tra quella spaventosa modernità e la coscienza di un’antichità meno edulcorata di quella barocca delle chiese e dei vicoli. Un piccolo anello di congiunzione, una lieve concessione alla decorazione plastica in corrispondenza di uno dei tanti incroci di quel titanico reticolo di minacciose (almeno così parevano a me) linee rette.
Forse qualcuno non si sarebbe neppure accorto della sua esistenza, ma sarebbe stata lì, più in basso, più umile, più laica e domestica del santo benedicente in cima alla colonna ma, comunque, in alto.
Non era la prima figura che scolpivo per le fortezze del regime: il Pilota ed il Maestro d’ascia per il prospetto del Palazzo delle Finanze di Bari erano più imponenti, ma anche più lontane dal mio sentire.
Erano stati anni di sintesi e di confronto, per me e per altri che andavano conquistandosi favori decisamente maggiori tra i critici e gli uomini di governo. Anni di arcaismo, volumi solidi, severità delle forme. Non certo per adattarmi al gusto imperante: la moda del Ritorno all’Ordine non mi aveva toccato, a suo tempo. All’ordine non avevo mai smesso  di tendere, per onorare i miei veri maestri, i grandi del Rinascimento, e per sottrarre i miei pensieri al caos che facilmente li assorbiva, facendoli mulinare angosciosamente in un vortice che mi inghiottiva e mi sballottava, soprattutto in gioventù.
Quando i futuristi cominciarono a venirsene con le loro idee astruse, scrissi perfino un contromanifesto. Non ero che un ragazzo di provincia, ma ero in grado di capire quale fosse il loro scopo e quali mezzi tecnici e stilistici intendessero utilizzare, e ne capivo abbastanza per realizzare che non mi interessavano.
Per me l’artista non avrebbe mai dovuto essere altro che un interprete delle umane passioni, e i futuristi facevano dell’uomo un manichino, un pupazzo a molla simile a quelli che si donano ai bambini per la Befana. Balla e Boccioni confondevano la scienza e la meccanica con l’arte, e mettevano l’uomo in un cantuccio.
Questa mia visione dell’arte m’aveva lungamente penalizzato: la definivano “ottocentesca”, e qualcuno prese perfino il mio padiglione alla Biennale per la retrospettiva di uno scultore del XIX secolo, rispolverato per l’occasione. Non me la presi. D’altronde per me la polemica sull’Ottocento non era chiusa, non c’era niente da buttare via, nessun punto zero da cui ricominciare, nessun punto meno uno da cui riallacciarsi alla tradizione.  
Forse per questo non volevo che la mia cariatide fosse un’eroina della modernità, come il pilota o il maestro d’ascia. Doveva essere antica ed umana, una contadina dimessa, eppure dritta sulla schiena, con il capo rispettosamente coperto ma il volto in luce, sereno ed affaticato ad un tempo, come quelle dipinte da Millet, che dalla campagna veniva davvero, proprio come me.
Delle contadine raccontate dal pittore francese doveva avere la dignità, non l’umiltà e la dolcezza; non doveva trasmettere l’afflato religioso che animava Millet. Se un senso religioso doveva impetrare, la mia cariatide, non era certo quello cristiano: una piccola dea delle messi, casomai, una delle tante piccole dee senza Olimpo che permettevano al Duce, mietendo e raccogliendo, di tenere tutto stretto stretto tra le sue braccia forti: “Tutto dentro lo Stato, niente al di fuori dello Stato”, come recita ancora la spessa scritta nera in cima alla facciata curvilinea della Questura.
Con le loro braccia, che perdevano ogni mollezza ed eleganza femminili, quelle piccole dee gli concedevano di erigere i suoi santuari al dio Stato e i monumenti alla strana divinità nelle vesti della quale lui stesso si faceva rappresentare. Una divinità senza apparenti debolezze, a differenza di quelle greche e romane. E senza le loro proporzioni perfette, mi permetto di aggiungere, ora che nessuno mi sanziona se non riesco a starmi zitto o dimentico di indossare la camicia nera durante l’ennesima parata, come quella volta a Roma.
Quelle piccole dee senza Olimpo, poi, spigolando come ai tempi dell’Antico Testamento, riuscivano a portare un po’ di farina in casa, con cui fare qualche pagnotta di pane bianco, ogni cento di pane nero che i loro figli dovevano sbocconcellare, in attesa di dannarsi nei campi e tra i filari, e di farsi valere sul campo di battaglia.
Così andavo ragionando, e tacevo, ché a malapena riuscivo a dar da vivere alla mia povera Amelia, e poi, quelle rare commissioni mi davano la possibilità d’essere uno scultore povero, piuttosto che un povero scultore.  
Ragionamenti ottocenteschi, troppo rossi per l’era di Mussolini, troppo grigi per quella che venne poi, quella della cosiddetta “ricostruzione”. Corsi e ricorsi, sempre. Costruzione abbattimento ricostruzione. Prima nell’Arte, che è sempre un passo avanti, poi nella Storia. E mai nessuno che riesca a vedere un filo di senso ininterrotto.
Io mi affaticavo gli occhi per vederlo, quel filo, nella penombra del mio studio, ché l’elettricità costa. Lo cercavo nelle vene della pietra, nelle tracce che lasciavo con le mirette nell’argilla fresca, tra i graffi dei miei disegni. Ma non divaghiamo, anche se, chi mi conosce bene, ci è abituato, al mio divagare.
Dicevo che la mia cariatide doveva essere severa ma, per quanto ci provassi, non riuscivo ad impormi una linearità che facesse rassomigliar le mie sculture a quei mirabili spaventapasseri che scolpiva Martini e quegli inquietanti, umanissimi burattini che dipingeva Sironi. Così mi concentrai sulle spighe.
La natura, a ben vedere, sa essere molto lineare. Molto più dell’uomo che si incurva di continuo, piegando la schiena davanti al più forte o dandosi uno slancio di ribellione; l’uomo che sale in cima e rotola giù come Sisifo, che segue percorsi tortuosi per ritrovarsi miseramente al punto di partenza o fatalmente dove magari nemmeno lui sa.
Dunque, scolpii le spighe pensando all’angolo dell’edificio che doveva accogliere la mia scultura: avrebbero seguito verticalmente lo spigolo, così pure la mia contadina sarebbe riuscita solenne, marziale, essenziale, come quelle pietre squadrate erette nel cuore stranito del gorgo barocco di Lecce.
Quante contadine, quante madri avevo ed avrei disegnato, scolpito, plasmato. Quella che ho regalato a Lecce può sembrare diversa da tutte loro, perché quelle stavano tutte sedute: alcune in attesa dello sciogliersi del mistero della nascita, altre dell’uomo di ritorno dai campi o dalla guerra, altre ancora in attesa di quel tutto e niente che è il volger delle stagioni, altre ancora, della morte.
Questa è in piedi, è vero. Qualcuno potrebbe pensare che la mia contadina si fosse alzata perché l’attesa era finita, il riscatto era arrivato fino ai campi dove quelle come lei s’erano spezzate la schiena fino a quel momento. Glielo lasciavo credere, a quei bolsi gerarchi in abiti militareschi, adatti ad una guerra che si guardavano bene anche solo dal pensare di combattere in prima linea e che, di lì a poco, ci avrebbe travolto tutti come una disgrazia inevitabile.
La mia contadina sa benissimo che il riscatto non ha niente a che vedere con gli slogan, le promesse, le prese di posizione e nemmeno con i movimenti di popolo. Il riscatto è una questione privata, è l’ultimo colpo di scalpello che ti risolve la paziente fatica di mesi, è la spigolatura al crepuscolo, quando il padrone ti lascia finalmente andare a casa, per portare a molire quel poco di farina che ti permetterà di cuocere finalmente un bellissimo pane bianco.
La mia contadina è in piedi. Perché segue uno spigolo.



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