di Lorenzo Madaro
Ozio. Lo si
percepisce bighellonando con uno sguardo agile (all’insù naturalmente) per le
vie dei nostri centri storici, da Lecce alle realtà “minori” del Salento:
putti, santi, decorazioni plastiche… tutto sembra assopito ma vigile, anche
quando la carica barocca infiamma i prospetti, accende gli altari, movimenta i
balconi ed elettrizza cornicioni e mignani. C’è in quell’atmosfera atemporale,
calma e densa al contempo – che fa parte dell’attitudine del sud, e di questo
sud nella fattispecie – un’energia sospesa da meditare e contemplare anche
sotto il profilo estetico.
Oziare è appunto
un’attitudine di chi riflette e poi agisce, ma con calma: una sorta di
condizione dell’anima che naturalmente non significa inoperosità. L’avevano già
dedotto i viaggiatori che tra Otto e Novecento hanno scandagliato il nostro
territorio, non senza rilevare particolari che forse a noi sfuggono ancora a
distanza di molto tempo.
Oggi dieci nomi
riflettono negli spazi di A&A di Galatina attorno a questo tema delle
declinazioni plurime, attraverso le propensioni di numerosi linguaggi – dal
disegno al video e al sonoro, dalla fotografia alla pittura – che si stemperano
nel genius loci. Pare strano parlare
di un tale rapporto con il territorio
in un momento di grandi alterazioni, confronti e sollecitazioni che vengono da
più aree e che probabilmente se da una parte attirano interesse e iniettano
legittime dinamiche globali, dall’altra mettono a rischio temperamenti visivi e
percettivi legati a uno specifico luogo della geografia emozionale e
antropologica di ognuno.
Non è
sicuramente il caso dei dieci artisti coinvolti per questa mostra da A&A,
che conferma difatti il suo legame e la sua volontà di confronto con gli
artisti del territorio, anche con coloro che qui si sono stabiliti (magari solo
idealmente) o che da questa terra sono partiti alla ricerca di altre istanze.
Hernàn Chavar, Francesco Cuna, Salvatore Masciullo, Giovanni Matteo, Fabio Mazzola,
Emanuele Puzziello, Patrizia Emma Scialpi, Francesca Speranza, Domenico Ventura
e Zweisamkeit si sono così ritrovati a riflettere, talvolta insieme, attorno
alle declinazioni di ozio, con opere concepite ad hoc o con lavori già compiuti
che ben si prestano alle medesime riflessioni che riguardano la stessa pratica
artistica intesa anche come processo operativo.
Ozio può anche
esprimere un distacco, un allontanamento più o meno frenetico rispetto alle
logiche dell’attuale sistema dell’arte globalizzato. Può quindi diventare
allegoria di un processo e di un’attenzione solitaria, periferica e riflessiva,
che si propone all’interno di dinamiche che sanno però divenire corali.
Sarebbe
fuorviante ripercorrere sotto il profilo filosofico e storiografico questa pratica – che i latini chiamavano otium,
con tutti i risvolti intellettuali del caso –, dalle analisi di Aristotele e
Seneca fino a giungere alle indagini più recenti dense di riferimenti
socio-antropologici. Perciò addentriamoci nelle proposte dei protagonisti di
questa mostra corale.
È “My old
friend”, una serie di tre chine su carta di Chavar ad aprire questo breve
cammino di sollecitazioni visuali, proponendo un personaggio austero totalmente
coperto da un mantello nero, che diviene così un microcosmo in cui rifugiarsi e
riflettere. Un gioco di tratteggi – che evidenzia sinuosi panneggi che
ostentano le posizioni e l’antiesibizionismo della figura ritratta – sembra
quasi ricercare un contatto con l’osservatore.
Sceglie la via
dell’incarnazione – la sua pittura è vissuta difatti da corpi – Francesco Cuna,
autore de “La terza interlocutrice”, un dipinto del 2011 che evidenzia la
struttura della rappresentazione metaforica, attraverso una sorta di maschera
indossata da un’anonima modella, mentre un lungo naso appuntito contrassegna il
velo del burca che la avvolge. Anche lei – come gli uomini velati di Chavar –
alla contemplazione autoreferenziale oppongono (o magari associano soltanto) un
contatto con l’esterno, con il fruitore e la dimensione intima del ‘quadro’.
Salvatore
Masciullo sta dalla parte della pittura, attraverso una lotta che fa presagire
i suoi trascorsi artistici di lingua tedesca. Il gusto per l’azione pittorica
nel suo lavoro si annoda infatti all’interesse per una rappresentazione che è
quasi una rivelazione. Giovani corpi si muovono in una dimensione quasi
incomprensibile, mentre uno sguardo immaturo scruta l’osservatore dell’opera.
Intorno, una teoria di volatili e figure, forse dei monaci – reali o
immaginati? – richiamano letture eterogenee dell’ozio, declinate verso il mondo
dell’estasi mistica e naturalistica.
Dicevamo del
genius loci. Gli artisti transavanguardisti guidati da A.B.O. – giusto per
citare un caso storicizzato, ma gli esempi sono legati anche all’arte
strettamente attuale – ci hanno ricordato che genius loci significa anche gusto
per la citazione. Giovanni Matteo nella sua opera in mostra ha infatti
riprodotto la decorazione stilizzata di un vaso dauno che si trova nel museo di
Melfi, raffiguranti l’irripetibile viaggio dell’anima dopo la morte.
L’atmosfera surreale che contrassegna tutto il contesto – non ultima la figura
in primo piano che rintraccia il disegno delle sette stelle – propone
un’allegoria irrisolta del viaggio. L’ozio è anche questo. L’ozio è anche riflessione
verso la morte all’interno di un paesaggio megalitico concepito con i segni
netti di un pennarello colorato.
Fabio Mazzola
propone un video concepito per la mostra, coerente con quella ricerca di sensi
che sta perquisendo negli ultimi mesi con il suo lavoro plurale e
plurilinguistico. “Calura. Trilogia falsificata di Sant’Ignazio” è un gioco di
rimandi, tra memorie famigliari – il riferimento al suo secondo nome, gli
omaggi alla terra natìa di suo nonno: la Sicilia –, oppressive realtà introverse,
puntellate dal rumorio fastidioso di un vecchio ventilatore, e sguardi
dischiusi. L’ozio è in questo caso un soffocante e ammaliante rigurgito
interiore, sempre però imbandito sulla tavola del paradosso e
dell’autorappresentazione estremizzata a dovere.
L’opera nata per
questa mostra galatinese di Emanuele Puzziello, rivendica – se mai ce ne fosse
bisogno – le attenzioni pittoriche legate alla sfera esistenziale della ricerca
visiva. L’ozio qui è una condizione di stasi fisica e mentale, stando alla
leggiadra armonia della figura femminile che si lascia vivere in un ambiente
indefinito, retto soltanto da un cubo dagli inquietanti risvolti. La pittura si
rivela in un duello tra cromìe e palpitanti attenzioni segniche, così manifesti
anche in altre opere della sua produzione recente che probabilmente urge anche
di una rilettura critica complessiva.
Patrizia Emma
Scialpi propone un bestiario su piccoli fogli di carta, con fondi acquerellati
arricchiti di segni lievi a china che riprendono le fattezze ironiche di
animali immaginari. Sono degli appunti visivi, giocati sul rapporto tra
l’essenziale nero del segno disegnato e il colore acquerellato liquefatto sul
foglio con apparente distrazione: un esercizio solitario e ozioso che attesta
un interesse verso una percezione ibrida della ir-realtà lowbrow.
È l’ozio
apparentemente più immediato quello proposto nelle ironiche fotografie di
Francesca Speranza in mostra. Donne e uomini assisi in riva al mare, a
contemplare null’altro che la serenità vacanziera agostana. Non a caso gli
scatti sono stati eseguiti sulle spiaggie della costa leccese e brindisina, tra
ombrelloni, secchielli e occhiali da sole, in un irrefrenabile concerto
cromatico dalle tinte accese che sottolinea sorrisi, sguardi sorpresi e rilassati.
Corpi smagliati, cappelli improbabili e naturalmente il mare s-confinato del
Salento. Lontano dalle mete modaiole che hanno investito il territorio negli
anni recenti.
L’ozio che si
respira nel dipinto di Domenico Ventura, è intriso di bizzarria, sessualità non
ipocrita e vivaci rinvii all’architettura e al paesaggio del sud. Rigorosa e
coerente. È così la pittura di Ventura. E non è un caso che per quest’opera
della produzione recente rimane valida una vecchia riflessione di Pietro Marino
legata alla produzione datata dell’artista: «Il mondo di Ventura è popolato di
personaggi che alludono a remote vicende dell’inconscio, a fantasmi di
esperienze conturbanti, a memoria dell’infanzia (come in un film di Fellini).
Ma sebbene il montaggio delle immagini sia fantastico ed alogico, sarebbe
improprio parlare di surrealismo: il simbolismo delle visioni è infatti
riassorbito in una curiosa saldezza monumentale che riporta a giri di cultura
‘rappresentativa’».
Chiude il
cerchio una traccia inedita di Zweisamkeit, che ribadisce l’attitudine plurima
del progetto, insieme a quel “territorio magico” che appartiene al visivo, si
propone l’apparente incorporeità della musica. Una traccia musicale concepita
come parte integrante dell’interno progetto, anche del catalogo su supporto
digitale edito per l’occasione, vuole essere così l’ideale punto d’arrivo (e di
partenza) di un’idea condivisa.
Questa mostra
vuole essere una sorta di chiamata alle armi su una riflessione teorica – non
seriosa – incentrata sul concetto di ozio. Perciò ispirandomi a un’“Esposizione
Universale” curata da Giacinto Di Pietrantonio alla GAMeC di Bergamo alcuni
anni fa – in cui si proponevano opere legate a grandi tempi, universali
appunto, accompagnati anche da frasi estrapolate da conversazioni in chat, sms
o posta elettronica, volute dallo stesso Di Pietrantonio –, ho pensato di
coinvolgere una serie di persone – amici del mondo dell’arte in particolare –
per farmi raccontare il loro punto di vista sul macroconcetto ozio. Il
risultato è stato spesso sorprendente, grazie ai numerosi contributi che sono
stati recapitati sulla mia pagina facebook o sulla mia casella di posta
elettronica. Da Lorenzo Canova a Titti Pece, da Pietro Di Terlizzi a Vanni
Cuoghi. Da Roberto Lacarbonara a Francesco Schiavulli e Marco Petroni, giusto
per citarne alcuni. Con generoso impegno tutti hanno proposto su mio invito una
loro versione dei fatti, naturalmente ignorando il concept specifico della
nostra proposta espositiva e concentrandosi esclusivamente sul loro concetto di ozio. Su queste pagine
troverete quindi queste declinazioni di ozio frutto di un coinvolgimento ampio
e condiviso.
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