L’Ozio è rifugio e strumento d’indagine. Non l’ozio dei basilischi e dei gattopardi, ma quello di Seneca: “una sosta, non un porto”, che dà l’occasione di contemplare, scrutare, conoscere… La quiete apparente del Sud, la lentezza evocata da Franco Cassano nel suo “Pensiero Meridiano”, che permette di “aprirsi magicamente ai sogni” e di trovare “un accordo tra mente e mondo”. L'Ozio che coinvolge gli artisti che hanno deciso di collaborare a questo progetto non è una condizione stagnante ma, al contrario, è il motore della novità: permette di scavare ancora, dopo millenni nella realtà che viviamo, per offrire frammenti di verità. L’arte vuole il suo tempo, l’artista deve impadronirsene per poter pensare, elaborare, mettere in campo la sua abilità manuale, cercando il giusto equilibrio tra virtuosismo e gesto istintuale, tra esperienza personale e collettiva.

venerdì 24 agosto 2012

Il beneficio dell’ozio per dieci artisti della contemporaneità


di Lorenzo Madaro


Ozio. Lo si percepisce bighellonando con uno sguardo agile (all’insù naturalmente) per le vie dei nostri centri storici, da Lecce alle realtà “minori” del Salento: putti, santi, decorazioni plastiche… tutto sembra assopito ma vigile, anche quando la carica barocca infiamma i prospetti, accende gli altari, movimenta i balconi ed elettrizza cornicioni e mignani. C’è in quell’atmosfera atemporale, calma e densa al contempo – che fa parte dell’attitudine del sud, e di questo sud nella fattispecie – un’energia sospesa da meditare e contemplare anche sotto il profilo estetico.

Oziare è appunto un’attitudine di chi riflette e poi agisce, ma con calma: una sorta di condizione dell’anima che naturalmente non significa inoperosità. L’avevano già dedotto i viaggiatori che tra Otto e Novecento hanno scandagliato il nostro territorio, non senza rilevare particolari che forse a noi sfuggono ancora a distanza di molto tempo.

Oggi dieci nomi riflettono negli spazi di A&A di Galatina attorno a questo tema delle declinazioni plurime, attraverso le propensioni di numerosi linguaggi – dal disegno al video e al sonoro, dalla fotografia alla pittura – che si stemperano nel genius loci. Pare strano parlare di un tale rapporto con il territorio in un momento di grandi alterazioni, confronti e sollecitazioni che vengono da più aree e che probabilmente se da una parte attirano interesse e iniettano legittime dinamiche globali, dall’altra mettono a rischio temperamenti visivi e percettivi legati a uno specifico luogo della geografia emozionale e antropologica di ognuno.
Non è sicuramente il caso dei dieci artisti coinvolti per questa mostra da A&A, che conferma difatti il suo legame e la sua volontà di confronto con gli artisti del territorio, anche con coloro che qui si sono stabiliti (magari solo idealmente) o che da questa terra sono partiti alla ricerca di altre istanze. Hernàn Chavar, Francesco Cuna, Salvatore Masciullo, Giovanni Matteo, Fabio Mazzola, Emanuele Puzziello, Patrizia Emma Scialpi, Francesca Speranza, Domenico Ventura e Zweisamkeit si sono così ritrovati a riflettere, talvolta insieme, attorno alle declinazioni di ozio, con opere concepite ad hoc o con lavori già compiuti che ben si prestano alle medesime riflessioni che riguardano la stessa pratica artistica intesa anche come processo operativo.

Ozio può anche esprimere un distacco, un allontanamento più o meno frenetico rispetto alle logiche dell’attuale sistema dell’arte globalizzato. Può quindi diventare allegoria di un processo e di un’attenzione solitaria, periferica e riflessiva, che si propone all’interno di dinamiche che sanno però divenire corali.

Sarebbe fuorviante ripercorrere sotto il profilo filosofico e storiografico questa pratica – che i latini chiamavano otium, con tutti i risvolti intellettuali del caso –, dalle analisi di Aristotele e Seneca fino a giungere alle indagini più recenti dense di riferimenti socio-antropologici. Perciò addentriamoci nelle proposte dei protagonisti di questa mostra corale.

È “My old friend”, una serie di tre chine su carta di Chavar ad aprire questo breve cammino di sollecitazioni visuali, proponendo un personaggio austero totalmente coperto da un mantello nero, che diviene così un microcosmo in cui rifugiarsi e riflettere. Un gioco di tratteggi – che evidenzia sinuosi panneggi che ostentano le posizioni e l’antiesibizionismo della figura ritratta – sembra quasi ricercare un contatto con l’osservatore.  

Sceglie la via dell’incarnazione – la sua pittura è vissuta difatti da corpi – Francesco Cuna, autore de “La terza interlocutrice”, un dipinto del 2011 che evidenzia la struttura della rappresentazione metaforica, attraverso una sorta di maschera indossata da un’anonima modella, mentre un lungo naso appuntito contrassegna il velo del burca che la avvolge. Anche lei – come gli uomini velati di Chavar – alla contemplazione autoreferenziale oppongono (o magari associano soltanto) un contatto con l’esterno, con il fruitore e la dimensione intima del ‘quadro’.

Salvatore Masciullo sta dalla parte della pittura, attraverso una lotta che fa presagire i suoi trascorsi artistici di lingua tedesca. Il gusto per l’azione pittorica nel suo lavoro si annoda infatti all’interesse per una rappresentazione che è quasi una rivelazione. Giovani corpi si muovono in una dimensione quasi incomprensibile, mentre uno sguardo immaturo scruta l’osservatore dell’opera. Intorno, una teoria di volatili e figure, forse dei monaci – reali o immaginati? – richiamano letture eterogenee dell’ozio, declinate verso il mondo dell’estasi mistica e naturalistica.

Dicevamo del genius loci. Gli artisti transavanguardisti guidati da A.B.O. – giusto per citare un caso storicizzato, ma gli esempi sono legati anche all’arte strettamente attuale – ci hanno ricordato che genius loci significa anche gusto per la citazione. Giovanni Matteo nella sua opera in mostra ha infatti riprodotto la decorazione stilizzata di un vaso dauno che si trova nel museo di Melfi, raffiguranti l’irripetibile viaggio dell’anima dopo la morte. L’atmosfera surreale che contrassegna tutto il contesto – non ultima la figura in primo piano che rintraccia il disegno delle sette stelle – propone un’allegoria irrisolta del viaggio. L’ozio è anche questo. L’ozio è anche riflessione verso la morte all’interno di un paesaggio megalitico concepito con i segni netti di un pennarello colorato.

Fabio Mazzola propone un video concepito per la mostra, coerente con quella ricerca di sensi che sta perquisendo negli ultimi mesi con il suo lavoro plurale e plurilinguistico. “Calura. Trilogia falsificata di Sant’Ignazio” è un gioco di rimandi, tra memorie famigliari – il riferimento al suo secondo nome, gli omaggi alla terra natìa di suo nonno: la Sicilia –, oppressive realtà introverse, puntellate dal rumorio fastidioso di un vecchio ventilatore, e sguardi dischiusi. L’ozio è in questo caso un soffocante e ammaliante rigurgito interiore, sempre però imbandito sulla tavola del paradosso e dell’autorappresentazione estremizzata a dovere.


L’opera nata per questa mostra galatinese di Emanuele Puzziello, rivendica – se mai ce ne fosse bisogno – le attenzioni pittoriche legate alla sfera esistenziale della ricerca visiva. L’ozio qui è una condizione di stasi fisica e mentale, stando alla leggiadra armonia della figura femminile che si lascia vivere in un ambiente indefinito, retto soltanto da un cubo dagli inquietanti risvolti. La pittura si rivela in un duello tra cromìe e palpitanti attenzioni segniche, così manifesti anche in altre opere della sua produzione recente che probabilmente urge anche di una rilettura critica complessiva.    

Patrizia Emma Scialpi propone un bestiario su piccoli fogli di carta, con fondi acquerellati arricchiti di segni lievi a china che riprendono le fattezze ironiche di animali immaginari. Sono degli appunti visivi, giocati sul rapporto tra l’essenziale nero del segno disegnato e il colore acquerellato liquefatto sul foglio con apparente distrazione: un esercizio solitario e ozioso che attesta un interesse verso una percezione ibrida della ir-realtà lowbrow.

È l’ozio apparentemente più immediato quello proposto nelle ironiche fotografie di Francesca Speranza in mostra. Donne e uomini assisi in riva al mare, a contemplare null’altro che la serenità vacanziera agostana. Non a caso gli scatti sono stati eseguiti sulle spiaggie della costa leccese e brindisina, tra ombrelloni, secchielli e occhiali da sole, in un irrefrenabile concerto cromatico dalle tinte accese che sottolinea sorrisi, sguardi sorpresi e rilassati. Corpi smagliati, cappelli improbabili e naturalmente il mare s-confinato del Salento. Lontano dalle mete modaiole che hanno investito il territorio negli anni recenti.

L’ozio che si respira nel dipinto di Domenico Ventura, è intriso di bizzarria, sessualità non ipocrita e vivaci rinvii all’architettura e al paesaggio del sud. Rigorosa e coerente. È così la pittura di Ventura. E non è un caso che per quest’opera della produzione recente rimane valida una vecchia riflessione di Pietro Marino legata alla produzione datata dell’artista: «Il mondo di Ventura è popolato di personaggi che alludono a remote vicende dell’inconscio, a fantasmi di esperienze conturbanti, a memoria dell’infanzia (come in un film di Fellini). Ma sebbene il montaggio delle immagini sia fantastico ed alogico, sarebbe improprio parlare di surrealismo: il simbolismo delle visioni è infatti riassorbito in una curiosa saldezza monumentale che riporta a giri di cultura ‘rappresentativa’».

Chiude il cerchio una traccia inedita di Zweisamkeit, che ribadisce l’attitudine plurima del progetto, insieme a quel “territorio magico” che appartiene al visivo, si propone l’apparente incorporeità della musica. Una traccia musicale concepita come parte integrante dell’interno progetto, anche del catalogo su supporto digitale edito per l’occasione, vuole essere così l’ideale punto d’arrivo (e di partenza) di un’idea condivisa.

Questa mostra vuole essere una sorta di chiamata alle armi su una riflessione teorica – non seriosa – incentrata sul concetto di ozio. Perciò ispirandomi a un’“Esposizione Universale” curata da Giacinto Di Pietrantonio alla GAMeC di Bergamo alcuni anni fa – in cui si proponevano opere legate a grandi tempi, universali appunto, accompagnati anche da frasi estrapolate da conversazioni in chat, sms o posta elettronica, volute dallo stesso Di Pietrantonio –, ho pensato di coinvolgere una serie di persone – amici del mondo dell’arte in particolare – per farmi raccontare il loro punto di vista sul macroconcetto ozio. Il risultato è stato spesso sorprendente, grazie ai numerosi contributi che sono stati recapitati sulla mia pagina facebook o sulla mia casella di posta elettronica. Da Lorenzo Canova a Titti Pece, da Pietro Di Terlizzi a Vanni Cuoghi. Da Roberto Lacarbonara a Francesco Schiavulli e Marco Petroni, giusto per citarne alcuni. Con generoso impegno tutti hanno proposto su mio invito una loro versione dei fatti, naturalmente ignorando il concept specifico della nostra proposta espositiva e concentrandosi esclusivamente sul loro concetto di ozio. Su queste pagine troverete quindi queste declinazioni di ozio frutto di un coinvolgimento ampio e condiviso.
 

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